INSIEME PER SERVIRE
Religiosi e Laici aconvegno
Brescia 29.05 / 03.06 1988.
![Fra Raimondo a dx,Fra Onorio alc.,fra Pierluigiu a sx11[1]](http://files.splinder.com/4294bdf6bc5a9e61c6115724ab83777b.jpeg)
RELAZIONE FONDAMENTALE
FRA RAIMONDO FABELLO
Priore Provinciale
NON AVERE PAURA DI AVERE CORAGGIO
![FRa Raimondo - Primo Piano RELAZIONI FONDAMENTALE [1].doc](http://files.splinder.com/bd27343c7d4395964345898780c7ff0c.jpeg)
Giovanni di Dio va alla ricerca dei bisognosi e tutti quelli che trova, poveri, storpi, paralitici, pazzi, li porta nel suo ospedale: per primo nella storia da a ciascuno il suo letto (nei primi tempi una semplice stuoia), li divide a seconda delle patologie, e per sesso. Accanto all’ospedale crea una grande stanza dove possono essere accolti i pellegrini (che in quel tempo numerosi si recavano ai grandi santuari) e per tutti procura il cibo necessario, mèdiante la questua e gli aiuti che gli provenivano dai benefattori.
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Giovanni curava i suoi malati ma mirava alla loro salvezza spirituale e pertanto li faceva pregare, li esortava alla confessione e voleva che fossero riconoscenti verso i loro benefattori, pregando per loro.
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Nel suo primo ospedale faceva tutto da solo anche perché nessuno osava awicinarlo a motivo della sua recente presunta pazzia; ma dopo breve tempo trovò alcuni aiutanti che lo coadiuvassero: di essi certamente doveva molto fidarsi e sicuramente doveva averi i ben preparati se per molte ore del giorno affidava loro l’ospedale mentre egli si prodigava per mille altre necessità oltre alla questua quotidiana che egli faceva rivolgendosi alla gente di Granada con le parole “Fate bene fratelli, a voi stessi per amore di Dio”. Di una volta almeno si racconta che Giovanni di Dio rimase assente sette mesi dall’ospedale per recarsi a cercare aiuti fino a Valladolid, alla corte del Re. In questa occasione, tra l’altro, continuava a fare del bene a chiunque trovava nel bisogno anche se era andato a cercare aiuti per il suo ospedale, e a chi se ne lamentava rispondeva “Darlo qui o darlo a Granada è sempre far del bene per amore di Dio, il quale sta in ogni luogo” (Castro, Cap. XVI).
Sempre oltre all’ospedale, tutti quelli che si rivolgevano a lui “vedove e orfani onorati in segreto, persone coinvolte in liti giudiziarie, soldati sbandati, poveri contadini, che… egli soccorreva secondo le loro necessità e non mandava via nessuno sconsolato”, “cominciò anche a prendersi la cura di cercare i poveri vergognosi, ragazze ritirate, religiose e monache povere e donne sposate che pativano necessità in occulto”; provvedeva loro del necessario, chiedendo elemosina per esse e perché non stessero in ozio trovava per esse qualche lavoro da farsi in casa e poi “si sedeva un po’ e le animava al lavoro e teneva loro un breve discorso spirituale, esortandole ad amare la virtù e aborrire il vizio” (Castro, Cap. XIII).
E ogni venerdì, “giorno in cui si commemora la nostra redenzione”, Giovanni di Dio si dedicava alla redenzione delle prostitute e per tutte quelle che riusciva a convertire trovava i pezzi per una vita onorata, compresa la dote per quelle che volevano espiare entrando in qualche convento sia per quelle che erano portate al matrimonio.
Si potrebbero dire molte altre cose, credo tuttavia di aver già fatto comprendere quale erano le caratteristiche dell’ospitalità di Giovanni di Dio.
Ho detto che l’Ospitalità rappresenta il nostro carisma specifico; penso sia utile definire cosa intendiamo per carisma e lo faccio con le parole delle nostre attuali Costituzioni: “Il nostro carisma nella Chiesa è un dono dello Spirito, che porta a configurarci con il Cristo compassionevole e misericordioso del Vangelo, il quale passò per questo mondo facendo il bene a tutti e curando ogni sorta di malattia e infermità. In virtù di questo dono siamo consacrati dall’azione dello Spirito Santo, che ci rende partecipi in modo singolare, dell’amore misericordioso del Padre. Questa esperienza ci comunica atteggiamenti di benevolenza e donazione. ci rende capaci di compiere la missione di annunciare e di realizzare il Regno tra i poveri e gli ammalati; essa trasforma la nostra esistenza e fa sì che attraverso la nostra vita si renda manifesto l’amore speciale del Padre verso i più deboli, che noi cerchiamo di salvare secondo lo stile di Gesù. Mediante questo carisma manteniamo viva nel tempo la presenza misericordiosa di Gesù di Nazareth: Egli, accettando la volontà del Padre, con l’incarnazione si fà simile agli uomini suoi fratelli; assume la condizione di servo; si identifica con i poveri, gli ammalati e i bisognosi, si dedica al 10[0 servizio e dona la sua vita in riscatto per tutti”.
E in virtù di questo dono e cercando di realizzare questi atteggiamenti su Il’ esempio di Cristo che si è sviluppata nei secoli la nostra Ospitalità, all’inizio in modo sublime in Giovanni di Dio, e poi anche nei suoi figli, mediante opere concrete, iniziando dal primo ospedale fondato dallo stesso Giovanni di Dio in Granada nel 1539.
S. Giovanni di Dio (1495-1550) Giovanni Ciudad (poi chiamato di Dio) nasce in Portogallo, a Montemor-o-Novo nel 1495; a nove anni in modo misterioso lascia la casa paterna e lo ritroviamo in Spagna e dopo una vita avventurosa. ma anche ansiosa di capire cosa Dio vuole da lui, dopo una particolare illuminazione della grazia, riesce a fondare il suo primo ospedale.
E dotato sicuramente di doni di natura sui quali si sovrappongono i doni della grazia, mediante i quali diventerà il grande riformatore dell’ospedale e dell’assistenza sanitaria e il grande Santo della Carità.
Gli aspetti caratteristici (preludio e inizio dell’Ospitalità di cui stiamo trattando) che determinano e accompagnano la dedizione, il servizio, le attenzioni, l’amore di Giovanni di Dio verso i poveri e i malati si possono così delineare:
– Egli operava per amore di Dio e per la sua gloria. Il Castro, il biografo più autorevole, scrive: “In tutte le opere che faceva si prefiggeva come scopo principale che ne risultasse gloria e onore a nostro Signore, sì che la cura del corpo fosse mezzo per la salvezza dell’anima” (Cap. XIX).
– Egli viveva l’esperienza di essere stato per primo amato da Dio. Il Castro conferma: “Aveva l’ansia dei santi, di dare cioè se stesso in mille modi per amore di Colui che era stato tanto munifico con lui” (Cap. XIV). – Egli si immedesimava nei poveri, nei bisognosi. La sua vera e profonda umiltà lo poneva tra gli ultimi. “Tutto il tempo che servì nostro Signore lo passò nell’annientare e disprezzare se stesso e mettersi al posto più basso e umile in ogni forma e maniera che gli fosse possibile” (Castro, Cap. XXI).
– La carità di Giovanni di Dio non aveva limiti. “Il suo cuore non sopportava di vedere il povero patire necessità, senza apportarvi rimedio” (Castro, Cap. XVI).
– Giovanni di Dio confidava totalmente nella provvidenza ma si adoperava in tutto quello che poteva fare. Ai suoi poveri diceva “Confidate nel Signore poiché Egli provvederà a tutto, come suoi fare con coloro che da parte loro fan quello che possono”.
– Giovanni di Dio è un uomo anche molto pratico e concreto: al giovane Luigi Battista che voleva entrare a far parte dei suoi aiutanti, scrive: “Se venite qui dovrete obbedire molto e lavorare molto di più di quanto abbiate lavorato e tutto nelle cose di Dio, e consumarvi nell’attendere ai poveri”.
– Giovanni di Dio è un grande organizzatore, come vedremo in seguito.
Con questo spirito e con queste doti, Giovanni di Dio costruisce il suo modello di assistenza e per prima cosa vuole un ospedale in cui poter ricevere e curare i poveri e i pellegrini “a modo suo”, secondo le proprie intuizioni e i propri metodi fondati sull’amore, nonostante a Granada esistessero già almeno altri cinque ospedali tra cui l’ospedale reale ove egli stesso era stato ricoverato e trattato come pazzo e dove aveva iniziato a curare con amore quelli che erano con lui ricoverati.
Affidando i suoi duecento malati ad Anton Martin e una copia del quaderno dei debiti all’arcivescovo, Giovanni di Dio morì in Granada l’a marzo 1550 dieci anni soltanto dall’inizio della sua opera ed i funerali furono un autentico trionfo.
L’Ospitalità, dopo Giovanni di Dio
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Giovanni di Dio mai pensò di fondare un Ordine religioso ma solo che ai suoi pochi discepoli (non più di una decina) nominando suo successore Anton Martin.
Egli faceva ogni cosa come l’aveva imparata dal maestro e dopo tre anni soltanto passò il testamento come l’aveva avuto da Giovanni di Dio al suo successore. Nel frattempo tuttavia aveva trasferito “ospedalevenissero assistiti i suoi poveri e i suoi malati e questo lasciò in testamento in un ambiente più ampio e fondato un nuovo ospedale a Madrid. Iniziava la diffusione; il piccolo seme in breve tempo diventerà un albero rigoglioso.
Questi ospedali e quelli che vennero più tardi provengono direttamente dallo spirito e dalla organizzazione del fondatore e, nei primi secoli furono copia fedele di quello di Granada. Era una organizzazione completa e capi Ilare, con personale religioso e laico numeroso e ispirata a tale larghezza di vedute che potrebbe far onore anche ai nostri attuali ospedali.
Ciò ha facilitato la diffusione stessa dell’Ordine, argomento che oggi non possiamo trattare, ma rappresenta anche quello stile di ospitalità che ha caratterizzato l’Ordine nei primi secoli, praticamente fino alla sua soppressione iniziata a partire dagli anni 1730 e fino alla fine del1aOO. Quando S. Pio V approvò l’Istituto, nel 1572, si dice abbia esclamato “Questo è il fiore che mancava nel giardino della Chiesa di Dio!”.
Vale la pena di riportare alcuni aspetti di quella organizzazione, come li troviamo nelle prime Regole e Costituzioni, stese per l’ospedale di Granada. Queste note sono anche una dimostrazione delle capacità organizzative di Giovanni di Dio.
Leggiamo: “Essendo questo un ospedale realmente generale, dove concorrono tanti poveri infermi sia uomini che donne quasi tutti mantenuti con le elemosine date dai fedeli, conviene che vi siano molti ministri, sia fratelli per raccogliere dette elemosine, che altri officiali necessari per il governo della casa, per l’amministrazione dell’azienda, per la cura e il sollievo dei poveri” .
E ancora, dopo aver detto che l’ospedale deve avere un sacerdote per la cura delle anime, si dice “Si avrà un fratello maggiore (superiore) e 23 fratelli professi e dell’abito, una donna che sia madre e prefetta delle sale delle donne inferme, un infermiere maggiore e altri minori in ciascuna sala, un refettoriere, un cantiniere, un dispensiere, un guardarobiere, un cuoco, un sacrestano, un medico, un chirurgo, un barbiere, tre portieri, un maggiordomo (economo, amministratore).
E ancora, l’ospedale doveva avere una speziera che forniva medicinali e droghe ai ricoverati e vendeva anche agli esterni.
Lo spirito che doveva sempre animare i fratelli lo possiamo dedurre da quanto viene prescritto per il Fratello maggiore:
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“Poiché lo scopo principale dell’ospedale è la cura e il conforto dei poveri di Gesù Cristo, ordiniamo al fratello maggiore di essere mite, pio, caritatevole con i poveri; di compenetrarsi molto delle loro infermità, di non impazientirsi e di non riguardare come un peso la loro importunità, ma piuttosto li conforti e consoli con parole amorevoli e con opere caritatevoli e procuri che si dia loro il necessario sostentamento di giorno e di notte, secondo la qualità delle malattie, come pure la biancheria dei letti, che dev4essere limpida, in modo che, mediante il conforto ad essi arrecato, possano recuperare la salute più facilmente. E perché ciò possa conseguirsi meglio avrà premura di recarsi ogni giorno in tutte e singole le corsie dei malati, uomini e donne, chiedendo a ciascuno di essi se ha bisogno di qualche cosa, …se gli infermieri lo trattino male o non gli diano il necessario, onde possa rimediare a tutto con discrezione e prudenza in modo che le necessità siano sollevate e le colpe punite, …come pure deve recarsi abitualmente nei vari uffici… per vedere e rendersi conto se vi sia la pulizia necessaria e la regolarità e diligenza degli officiali in detti uffici”.
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Per quanto riguarda i fratelli infermieri viene stabilito “che gli infermieri siano fratelli dell’abito e non avendone a sufficienza, il Fratello maggiore procurerà di trovare uomini di buona vita e buon esempio e caritatevoli che disimpegnino l’ufficio con amore e carità”.
Per la cura dei malati viene prescritto: “Quando si riceve il malato povero, prima di metterlo a letto, se possibile, gli si lavino il viso e le mani, gli si taglino i capelli e le unghie e se non si pregiudica la salute gli lavino i piedi in modo che stia con molta limpidezza; dopo di che lo mettano a letto assestato bene, con lenzuoli e biancheria limpida, cuscini, berrettino e camicia dell’ospedale, se l’infermo non la portasse; tutto ciò si dovrà cambiare ogni otto giorni”.
“Gli infermieri dormiranno nelle corsie dei malati per accorrere subito alle loro necessità e a tal fine veglieranno nei rispettivi turni e nelle ore della notte, affinché per loro disattenzione o negligenza nessuno muoia senza qualcuno vicino, o si scopra, o caschi dal letto o faccia qualche altra cosa non decente, che possa essere evitata con l’aiuto e l’assistenza di detti infermieri”, i quali devono “trovarsi presenti alla visita del medico, perché possano poi eseguire meglio quanto sarà prescritto”.
E ancora, l’infermiere maggiore che nelle corsie ha ogni autorità “su tutti gli infermieri, anche se siano professi, e ministri e officiali” e che deve far loro compiere quanto è prescritto “comandandoli e aiutandoli”, “se necessario accompagnerà il medico nella visita e farà eseguire con diligenza tutto quello che prescriverà; dovrà essere presente alla distribuzione del vitto e darà disposizione sul modo di ammanirlo bene e limpidamente” .
Non meno chiare sono le disposizioni per i medici. “Il medico verrà molto presto al mattino, e il chirurgo dopo sorto il sole, perché possano visitare in tempo i malati e si possa in tempo provvedere il necessario sia per quello che riguarda il vitto come per quello che riguarda i medicinali, e cosi anche ritorneranno la sera, quando fosse necessario, e di questo noi facciamo un obbligo di coscienza”, e viene aggiunto “Facciamo obbligo ai detti medico e chirurgo di avere pazienza nel curare gli infermi, visitandoli con calma, serenità e tempo, informandosi delle loro malattie con affabilità e carità, per applicare meglio il rimedio e la medicina che conviene, ponendosi dinanzi agli occhi della mente il pensiero che è Gesù Cristo, loro Redentore, colui che cura l’infermo e, così facendo, Egli li illuminerà perché quelle e altre cure riescano bene e pagherà loro il cento per uno come ha promesso”.
Vì sono ancora molte altre raccomandazioni e prescrizioni, ma credo che quelle menzionate siano già molto chiarificatrici e non credo abbiano bisogno di particolari commenti.
Siamo nell’anno 1585. Questo stile, questo spirito di progresso, tipici dell’Ospitalità di Granada vengono riportati sebbene in termini diversi in tutte le Costituzioni dell’Ordine fino ai giorni nostri.
L’Ospitalità e la diffusione dell’Ordine
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La diffusione dell’Istituto fu rapida e estesa se si pensa che nel 1685 contava già 224 opere nei cinque continenti.
Questo sviluppo è stato possibile anche per il largo spazio libero che i Fatebenefratelli hanno trovato. In effetti le Religiose fino alla metà del secolo XVII si dedicavano raramente ai malati e l’assistenza laica degli infermieri era assai deficitaria. Inoltre il loro servizio nell’armata spagnola e poi in quella portoghese li ha portati in ogni parte del mondo e spesso, ove giungevano, viste le necessità delle popolazioni incontrate, si operavano per farsi affidare ospedali già esistenti o per erigere un loro ospedale. I mezzi venivano offerti spesso dagli stessi governi. I religiosi che invece ritornavano dalle campagne militari rientravano con la massima semplicità alle primitive occupazioni. In questo modo l’Ordine iniziò anche la sua presenza in Italia. Infatti, anche se non tutte le notizie storiche sono state verificate completamente, i Padri Soriano e Arias, che erano imbarcati con le truppe spagnole per la Battaglia di Lepanto (1571) contro i Turchi, passando per Napoli, decisero di fondarvi il primo ospedale.
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Nello scorrere dei tempi, l’assistenza ospedaliera si qualificava sempre più e iniziavano a delinearsi le specializzazioni. Anche in questi momenti l’Ordine fu spesso anticipatore. Soltanto a titolo di esempio. ricordo che già nelle Costituzioni del 1587 venivano
previsti i convalescenziari per il consolidamento della salute, il recupero delle forze per un buon ritorno al lavoro. Leggiamo infatti: “Nessun infermo sarà dimesso fino a quando non abbia passato alcuni giorni di convalescenza e quando negli ospedali dei nostri fratelli non si avesse la comodità di fare la convalescenza l’infermo venga trasferito in altri ospedali in cui si possa fare”.
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I primi ospedali italiani sono sorti quasi tutti per assistere i convalescenti. Fin dal 1600, soprattutto in Francia, si sviluppò una specializzazione psichiatrica. Il Celebre Pinel, nel suo “Traité de la manie”, fa un elogio dell’ospedale di Charenton, ospedale psichiatrico e maison de force (manicomio criminale). In questo ospedale sarà più tardi rinchiuso il tristemente famoso De Sade. E anche dopo la restaurazione dell’Ordine in Francia, la legge sugli alienati del 30 giugno 1838 ha raccolto numerosi suggerimenti e consigli del P. Giovanni di Dio de Magallon.
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Per l’Italia è interessante rileggere un passo del Regolamento dell’ospedale di Ancona (1840) in cui ebbe rinomanza il P. Vernò. Vi si legge: “I pazzi entrati in convalescenza saranno tolti dalla divisione in cui hanno dimorato nel tempo della malattia e verranno collocati nelle stanze del convalescenziario dove resteranno per tre mesi divisi interamente da tutti gli alienati”. “Nessuno dovrà essere ozioso, ma la loro occupazione deve essere scelta secondo le disposizioni naturali degli individui, secondo la loro professione e la specie di alienazione che soffersero”. “Nel corso della convalescenza saranno gli uomini qualche volta chiamati a pranzo dal rev.do Priore dell’ospedale e le donne dal medico direttore. L’ospedale presterà i mezzi per questi convitti di prova”.
Altre opere si specializzarono per le forme dermatologiche e soprattutto celtiche, altre per l’assistenza ai bambini rachitici e scrofolosi, altre per la cura e la rieducazione di handicappati fisici e psichici.
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L’Ospitalità e la formazione professionale
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Un ulteriore aspetto che ha caratterizzato l’ospitalità dei Fatebenefratelli durante i secoli è certamente quello della formazione professionale.
Per il suo fine specifico di assistere gli infermi, l’Ordine ha coltivato con impegno, secondo il livello del progresso culturale e tecnico dei tempi, gli studi medici, chirurgici, farmaceutici e infermieristici per la formazione dei suoi religiosi e non loro soltanto.
All’inizio la formazione avveniva con “esercizio pratico e con le lezioni al letto del malato, impartite man mano che ne capitava l’occasione, dal medico, dal Fratello maggiore e dai fratelli più anziani e più esperti.
I Novizi stessi dovevano essere istruiti dal Maestro nonsolo per quanto riguardava la vita ascetica e religiosa ma anche sull’assistenza ai malati, “servendo nelle sale degli infermi e nei vari uffici e altri ministeri della casa”. Alcuni Padri Generali ordinano di far scuola di filosofia ai novizi e ai Neoprofessi per avviare poi alcuni allo studio della medicina e di istruirli in modo che “imparino a cavar sangue, di chirurgia e di spezieria”.
Tutto ciò è stato certamente facilitato fin dall’inizio dalla presenza e dall’attività di alcuni valorosi medici, chirurghi, speziali (farmacisti) che entrarono nell’ordine e per la collaborazione di laici preparati. La prima scuola di chirurgia risale al 1553 presso l’ospedale di Anton Martin di Madrid. In essa si istruivano i religiosi che poi ottenevano “la convalidazione dinanzi al tribunale del protomedico”. Alla scuola partecipavano anche religiosi di altri Ordini e, giovani che avevano iniziato il tirocinio pratico presso qualche medico. Era destinata alla preparazione di chirurghi minori (non sapevano il latino), barbieri, flebotomi e infermieri e in seguito (dopo il 1556) anche allo studio delle malattie della pelle (soprattutto celtiche), odontoiatria, ORL e urologia. Chi voleva diventare chirurgo maggiore o medico, dopo un corso preparatorio di latino, grammatica e matematica. si iscriveva alla università.
Per modestia religiosa i fratelli addottorati erano esentati dalla cerimonia di investitura.
Anche in Italia questo aspetto fu molto curato, non sto ad elencare le scuole qui sviluppatesi. Certamente il livello professionale dei religiosi ed il numero dei laureati doveva essere alto se (ancora oggi sembra esagerato) il Capitolo provinciale del 1785 prescriveva che “Non si dovessero accettare all’abito se non persone dotate di speciale vocazione al nostro Istituto, e atti agli studi allo stesso propri tanto di medicina, chirurgia e farmacia quanto di conteggio per le cose amministrative” .
Questi religiosi inoltre dovevano essere molto stimati e richiesti se la Santa Sede è intervenuta per vietare la loro opera fuori dagli Ospedali. Nel Capitolo generale del 1738, per cercare di superare questo divieto, viene fatta notare l’impossibilità di adeguarvisi “perché ne segue disaffezione da parte di coloro che sono devoti ai nostri conventi, sospensione di elemosine e grande mancanza da parte dell’Ordine verso persone di ogni classe, che sollecitano il conforto di essere curate nei loro mali da un religioso chirurgo, riponendo in questa loro buona opinione il conseguimento della guarigione. Per tale motivo non si può negare a essi ciò che specificamente appartiene alla nostra professione e al nostro Istituto”.
Molti fratelli, oltre che per l’amoroso servizio prestato ai più poveri, furono in effetti insignì per aver curato principi, re e Papi e per vari contributi dati alla scienza alcuni figurano negli annuali; uno, il Beato Riccardo Pampuri è anche annoverato tra i Santi.
L’Ospitalità nelle Missioni dell’Ordine
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Giovanni di Dio ebbe un animo altamente missionario, anche secondo la terminologia moderna, non prefiggendosi altro fine che la gloria di Dio e la salvezza delle anime.
Lo stesso spirito missionario passò ai suoi primi discepoli e si diffuse rapidamente, sempre inquadrato nell’ambito del suo fine specifico, cioè all’assistenza degli infermi soprattutto negli ospedali. Tra i missionari troviamo parecchi martiri. Oggi l’ordine annovera oltre 20 opere missionarie ove i religiosi manifestano e dimostrano con fatti concreti quanto altri missionari insegnano con la predicazione e la catechesi.
L’Ospitalità nelle guerre, nelle epidemie e altre necessità
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L’Ospedale per i Fatebenefratelli è sempre stato il punto di riferimento privilegiato, tuttavia essi hanno realizzato l’Ospitalità anche in molte altre occasioni in cui la loro opera è stata ritenuta necessaria o utile.
Durante le guerre, come abbiamo visto anche all’inizio della diffusione dell’Ordine, i religiosi hanno partecipato come medici e infermieri al seguito degli eserciti, talora come responsabili della organizzazione sanitaria militare; altre volte hanno trasformato i loro ospedali in ospedali militari, altre ancora sono stati chiamati a organizzare e dirigere ospedali militari. Sono numerose le attestazioni di benemerenza ricevute sia per l’organizzazione che hanno saputo realizzare sia soprattutto per la loro dedizione e i loro servizi a favore dei feriti dell’uno e dell’altro fronte.
Durante le epidemie (P. Gabriele Russotto nella sua opera “S. Giovanni di Dio e il suo Ordine Ospedaliero” ne elenca 75 in cui sono intervenuti i Fatebenefratelli) sono parecchi i religiosi che hanno lasciato la vita per assistere i malati. Tra questi lo stesso Anton Martin, tre anni dopo la morte del Fondatore come abbiamo già visto e il Beato Giovanni Grande (1600). Per restare a noi, nella peste di Milano del 1630, siamo certi della morte di almeno 14 religiosi.
Nella calamità naturali e in caso di disastri ugualmente l’Ospitalità ha spinto i religiosi a intervenire con la loro dedizione. Accenno soltanto a titolo di esempio agli ultimi in ordine di tempo: lo scontro ferroviario di Benevento nel 1953, il terremoto di Agadir (Marocco) del marzo 1960, i terremoti del Friuli e dell’lrpinia.
L’Ospitalità oggi
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Le leggi repressive che erano quasi riuscite a sopprimere l’Ordine Ospedaliero, ovviamente non potevano sopprimere “Ospitalità, carisma, dono dello Spirito alla sua Chiesa, e, verso la fine del secolo scorso, l’Ordine ospedaliero inizia in modo molto intenso la sua restaurazione per opera di santi e coraggiosi religiosi, tra i quali spicca la figura del Beato Benedetto Menni. Peggiorano soltanto la loro situazione le opere oltre la cosiddetta “cortina di ferro”. Intensa si manifesta l’opera dei Fatebenefratelli durante le due guerre mondiali. In Italia si caratterizzano con le loro case di cura aperte a tutti, tra le poche convenzionate con tutti gli Enti assistenziali, e i loro istituti psichiatrici.
Con una scelta coraggiosa entrano nel servizio sanitario nazionale mediante la lassificazione delle loro Case di cura e in occasione della attuazione della legge 180 del 1978, si rifiutano di abbandonare al loro destino i malati psichiatrici che erano affidati alle loro cure, nonostante disagi economici notevoli e contestazioni varie.
Il Concilio Vaticano Il richiama tutti gli Istituti religiosi a rinnovarsi e a riformulare le proprie Costituzioni. Anche la società civile, e con essa il mondo sanitario, vivono una profonda trasformazione.
In questo contesto, per quanto riguarda il mondo sanitario, si possono sottolineare alcuni aspetti positivi, quali: una profonda evoluzione delle strutture sanitarie e ospedaliere, una più adeguata preparazione professionale degli operatori sanitari, una maggior partecipazione nella gestione della salute e del v%ntariato, e altri negativi, quali: una tecnologia esagerata e disumanizzante, una burocratizzazione e una politicizzazione eccessiva del mondo sanitario, l’emarginazione di alcune categorie di pazienti (malati cronici, anziani, tossicodipendenti, ecc.) e la progressiva assimilazione di una cultura di morte rappresentata dall’aborto e dalla eutanasia.
Per quanto riguarda l’Ordine Ospedali orao si riscontrano alcuni elementi preoccupanti, tra i quali:
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il calo nelle vocazioni e
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l’elevarsi dell’età media dei religiosi,
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la preparazione culturale e professionale non più adeguata ai tempi,
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la scarsa incisività apostolica all’interno delle proprie Opere,
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la difficoltà a gestire strutture divenute complesse,
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la difficoltà a realizzare rapporti cordiali di collaborazione e di fiducia con i collaboratori laici,
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una certa incapacità a influire sulla umanizzazione delle strutture ed a stimolare i nostri collaboratori.
In questi contesti sono state riformulate le nostre Costituzioni e Statuti Generali in cui vengono ripresi ritrascritti in termini conciliari gli aspetti legati al Carisma dell’Ordine, si rinnovano i criteri per la formazione dei religiosi, si riformulano i criteri di amministrazione e governo delle Comunità e delle Opere assistenziali e si identificano i criteri che danno lo stile della nostra Ospitalità. Per questo nostro convegno ritengo utile soffermarmi su questa parte, elencandone qualche aspetto.
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– Nella realizzazione della nostra missione occorre collaborare con altri organismi della Chiesa e dello Stato (CAS).
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– Occorre ricercare e accettare la collaborazione ,altre persone, professionisti e no, volontari e collaboratoi, ai quali ci sforzeremo di partecipare il nostro spirito nella realizzazione della nostra missione (C.46).
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– Occorre inserirsi individualmente e come comunità, nei centri e negli organismi dello Stato per svolgere una missione di evangelizzazione e di servizio nel mondo della salute (C.47).
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– Nella pastorale ospedaliera dobbiamo sensibilizzare i nostri collaboratori affinché esercitando le loro capacità umane e professionali, agiscano sempre con il massimo rispetto per i diritti dei malati, inoltre dobbiamo invitare a partecipare direttamente alla pastorale coloro che si sentono motivati dalla fede (C.51).
Gli Statuti Generali, inoltre, dichiarano i nostri centri assistenziali come confessionali e cattolici (S.53), e definiscono i principi fondamentali che orientano e caratterizzano l’assistenza nelle nostre opere, nel modo seguente (S. 54):
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– Avere come centro di interesse di quanti viviamo e lavoriamo nell’ospedale o in qualsiasi altra opera assistenziale il malato.
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– Promuovere e difendere i diritti del malato, dell’anziano e dell’invalido, tenendo conto della loro dignità personale.
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– Riconoscere il diritto della persona assistita a essere informata del suo stato di salute.
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– Osservare le esigenze del segreto professionale… – Difendere il diritto a morire con dignità…
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– Rispettare la libertà di coscienza delle persone che assistiamo e dei collaboratori, fermi nell’esigere che si rispetti l’identità dei nostri centri ospedalieri. – Rifiutare la ricerca di lucro osservando e esigendo che non si ledano le norme economiche giuste.
E poiché questi principi devono essere accettati e rispettati da tutte le persone che collaborano con noi, “si ponga la massima attenzione nella scelta del personale tecnico, amministrativo e ausiliario…, tenendo presente non solo la loro preparazione e la loro competenza professionale, ma anche la loro sensibilità di fronte ai valori umani e ai diritti dei malati, conforme agli orientamenti della Chiesa e degli organismi che proteggono i diritti dei malati” (S. 55).
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L’Ordine Ospedaliero intero è impegnato ad assimilare e vivere gli impegni derivanti dalle nuove Costituzioni e Statuti Generali. Alcuni religiosi sono disorientati e talvolta restii al cambiamento. Per recare maggior impulso e più energia a tutto ciò e per cercare di superare le resistenze, il Superiore Generale ha offerto a tutti tre grandi riflessioni, che ci stanno ancora impegnando:
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– Il Rinnovamento (1978), mediante il quale abbiamo cercato di riscoprire le radici della vocazione ospedaliera per viverla e testimoniarla secondo le esigenze dei tempi.
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– L’Umanizzazione (1981), mediante la quale e umanizzando noi stessi e le nostre strutture, cerchiamo ripristinare “la nostra alleanza con l’uomo che soffre” e di infondere un impulso più stimolante alla nostra comunità e ai nostri collaboratori per una assistenza che si centra sull’uomo e che lo serve con dignità e efficienza.
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– L’Ospitalità verso il 2000 (1986), che facendoci toccare con mano l’attualità e l’urgenza del nostro Carisma, ci sospinge, in questo mondo che si trasforma tanto velocemente, a una continua verifica e adattamento dei nostri atteggiamenti, e alla ricerca di eventuali nuovi ruoli apostolici che meglio realizzano la nostra Ospitalità.
In questa prospettiva, per taluni aspetti carica di ansietà e per altri capace di entusiasmi, cerchiamo di vivere oggi la nostra Ospitalità, orientata verso il millennio. Ci accompagna uno slogan: “Non avere paura di avere coraggio” e un programma forse ancora non ben delineato per essere sempre più autenticamente “testimoni”, “guide morali”, “coscienza critica”, “anticipatori” e “ricercatori” anche ai nostri giorni come lo fu all’inizio S. Giovanni di Dio.
L’Ospitalità insieme con i Fatebenefratelli
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Un ampio movimento si è sviluppato all’interno di tutto l’Ordine per realizzare quella che è stata definita “la nuova alleanza con i laici”, dopo che cause più diverse hanno portato ad una condizione di disagio che fanno soffrire tutti, religiosi e laici, cappellani e suore, e che soprattutto si ripercuotono negativamente nella qualità del servizio che assieme dobbiamo dare al malato. Anche semplicemente come cristiani credo che dobbiamo reciprocamente chiederci perdono e assieme chiedere perdono ai nostri malati e a Dio per la poca carità qualche volta esercitata.
Abbiamo visto precedentemente come le Costituzioni impegnano i religiosi a trasmettere le caratteristiche del carisma del!’ ospitalità ai nostri collaboratori e ad invitarli a partecipare alle attività pastorali.
Nelle nostre opere ci sono laici cristiani impegnati e non. Per i primi vale il comandamento di amare Dio e amare il prossimo, allo stesso modo di come è richiesto per i religiosi; per essi operare in una struttura religiosa e nello stile della ospitalità di Giovanni di Dio rappresenta inoltre una nuova o maggiore opportunità per esercitare il suo apostolato specifico, “partecipazione alla stessa missione salvifica della Chiesa” (LG .33) tra i malati che assiste e tra i colleghi con i quali opera.
Se necessario, anche per effetto della collaborazione che i religiosi affidano, i laici cristiani impegnati, ma non solo loro, saranno in grado, e talora anche moralmente impegnati, di dare consigli ai religiosi e di esercitare verso di essi la correzione fraterna.
All’interno dell’Ordine si ipotizza anche la possibilità di istituzionalizzare sotto la bandiera dell’ospitalità qualche movimento laicale.
Altri coinvolgimenti sono già stati iniziati, quali ad esempio “La fondazione internazionale Fatebenefratelli” costituita per la formazione medica, infermieristica e tecnica e per la ricerca in campo sanitario, “associazioni di volontariato ospedaliero”, l’associazione “Con i fatebenefratelli per i malati lontani”, costituita per promuovere l’assistenza sanitaria nei paesi in via di sviluppo.
Nei secoli scorsi, a partire dal primo ospedale di Granada sono sorte anche associazioni religiose e veri istituti religiosi che si sono ispirati alla Ospitalità dei Fatebenefratelli; ne cito due tuttora esistenti: le “Piccole suore dei poveri” che professano gli stessi nostri quattro voti, e le “Suore ospedaliere del S. Cuore di Gesù”, fondate dal nostro Beato Benedetto Menni e che possono essere considerate il ramo femminile dell’Ordine Ospedaliero.
Conclusione
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Non so se sono riuscito a esprimere chiaramente l’essenza, la grandezza e nello stesso tempo l’impegno della nostra Ospitalità.
Mi auguro che questo convegno ci aiuti a parteciparne lo spirito, ci renda capaci di assimilarlo ancora di più e a trovare nuove soluzioni o proposte perché lo possiamo diffondere a tutti i collaboratori e testimoniarlo, assieme, ciascuno secondo il proprio stato, a gloria di Dio e a beneficio dei nostri malati e dei nostri poveri.
Intervento di Don Dario Franzoni
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A metà della relazione il P. Provinciale, dopo aver enumerato tante attività dei Fatebenefratelli, ha risottolineato la radice e lo spirito da cui esse sono nate.
Come partecipante del Convegno e come sacerdote pongo a me una domanda che rivolgo pure a tutti voi: lo spirito, la radice, l’origine che ha germogliato tante opere da S. Giovanni di Dio in avanti è lo spirito religioso, sono le motivazioni confessionali, tradotte poi in azione concreta, filantropica di assistenza al malato.
Mi sembra, però, che oggi noi abbiamo rovesciato le cose.
Infatti, noi troviamo la radice del nostro operare per i pazienti nella filantropia e consideriamo la salvezza di tipo cristiano e religioso ai malati come un estremo atto di libertà o un surplus.
La domanda è questa: nelle nostre opere deve prevalere la radice cristiana e religiosa di S. Giovanni di Dio oppure c’è bisogno di rimettere l’uomo, la filantropia al centro del nostro operare?
Quale aspetto ha servito o serve meglio il malato? Senza voler trasformare i laici in frati, ma nemmeno voler fare dei frati delle persone che nei loro conventi vivono il cristianesimo mentre nelle corsie vivono la filantropia.
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Risposta del P. Provinciale
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Credo che Don Dario abbia fatto domanda e risposta. C’è un aspetto al quale io non ho accennato nella relazione e che mi sembra molto opportuno sottolineare perché noi lo sentiamo in maniera molto pesante.
Nel Capitolo Generale del 1982 il problema fondamentale dell’Ordine è apparso proprio questo: oggi i frati non sanno esattamente cosa possono fare, quali sono i problemi, quali sono le esigenze, ecc. e, nel contempo, non riescono a realizzare tutto quello che vorrebbero. Probabilmente, invece di impegnarsi a salvare si impegnano soltanto a curare.
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L’Ordine, in questo momento, sta proprio cercando di superare questo problema fondamentale (e non è detto che sia risolto). In effetti la posizione dell’Istituto partita da S. Giovanni di Dio, e questo l’abbiamo detto all’inizio sul carisma dell’Ospitalità, è che “noi siamo qui per salvare”. Questo è un compito che in parte si adatta ad ogni cristiano, ma sicuramente ci interroga sul come noi realizziamo questa salvezza con gli atteggiamenti di Cristo “Vai, sei guarito e non peccare più”, come è detto nel Vangelo. Oppure vuoi dire esattamente questo: se noi ci preoccupiamo soltanto di fare tutto il possibile per guarire probabilmente non ci accostiamo all’uomo considerando tutte le sue necessità e dimentichiamo i problemi sui quali si realizza la salvezza dell’uomo.
A mio parere, si resta molto distaccati da quest’uomo anche quando (senza arrivare alla salvezza finale, per intenderci, intesa nel senso più assoluto) ci preoccupiamo di aiutarlo nei suoi aspetti umani, psicologici e non.
Anche se non fossimo del tutto cristiani, a mio parere, noi dovremmo accostare l’uomo con una visione che non è soltanto. quella di curarlo, bensì di curarlo in modo integrale.
LAVORI DI GRUPPO
ETEROGENEI
RELAZIONE: Lo stile, le caratteristiche e le particolarità della nostra Ospitalità
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Relatore: Fra Raimondo Fabello, Provinciale.
Sintesi delle piste di riflessione alla prima domanda:
“Cosa significa per te che ‘il nostro Carisma è un dono dello Spirito?”‘.
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Il Carisma è l’impronta che lo Spirito dà alla vita di ogni uomo, e ogni uomo lo rinnova con l’impegno e la preghiera. Ognuno di noi esce dalla Casa del Padre con un dono specifico e quindi è strumento della volontà del Padre.
Il Carisma richiede impegno per essere scoperto, e, una volta scoperto, esiste solo se, e quando, viene vissuto.
Il Carisma è forza costante che rende atta la persona a testimoniare agli altri il Cristo sofferente e a viverlo concretamente.
Il Carisma ha diverse dimensioni che vengono realizzate in modi diversificati e portano ad una conversione quotidiana.
Il Carisma dovrebbe essere presente nella struttura, anche quando non vi è la presenza fisica di un religioso.
Ospitalità significa accogliere il proprio limite di uomo e quello dell’uomo malato.
Significa, inoltre. che da soli si può fare ben poco, di qui la consapevolezza dei limiti che non ci fanno accogliere se prima non accettiamo.
Rendere ospitalità al malato significa anche vederlo come il fine del nostro agire quotidiano.
È un dono che permette di poter salvare ogni uomo bisognoso nella sua globalità e trame di riflesso ‘un beneficio personale.
Ospitalità significa mettere a proprio agio il paziente, creandogli un ambiente confortevole e dandogli la possibilità di avere dei rapporti umani con l’operatore sanitario.
L’Ospitalità tramuta il nostro dare agli altri secondo lo Spirito di San Giovanni di Dio.
Ha significato prevalentemente umanitaristico se riferito a noi collaboratori. significato anche spirituale se riferito solo ai Fatebenefratelli.
I religiosi sono custodi di questo carisma, donato da San Giovanni di Dio, mentre i laici che lo condividono, collaborano con loro, avendo sempre come obiettivo l’imitazione di Cristo.
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Sintesi delle piste di riflessione alla seconda domanda:
“A pagina 7 e 8 vi sono indicazioni precise sulla professionalità degli operatori sanitari del tempo di San Giovanni di Dio e dei suoi primi seguaci. Sono indicazioni superate o mantengono tutta la loro validità?”.
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Riteniamo veramente valide tutte le indicazioni proposte da San Giovanni di Dio. Attualmente segnaliamo la carenza di organizzazione, talora anche apicale, la mancanza di dialogo tra operatori e, per alcuni, la scarsa attenzione al malato. Le tecnologie sono indispensabili, ma si annullano quando il malato non èal centro del nostro lavoro.
Oggi c’è più professionalità. ma questa si deve perfettamente integrare con le doti di spiritualità. Umanità e carità di ogni operatore sulla base della esperienza di San Giovanni di Dio.
Tutti gli operatori sanitari sono chiamati ad una responsabilizzazione personale indipendentemente dal loro ruolo e dal credo religioso.
Del Santo Fondatore non dobbiamo ripetere i gesti o le opere. bensì la capacità di capire quali sono i reali bisogni dell’ammalato. Le capacità tecniche ci favoriscono nel capire quali sono queste necessità.
Quanto detto è importante nel momento attuale in cui gli ospedali difficilmente si fanno carico della sofferenza dell’uomo. La medicina ha sempre un limite nel fare qualcosa per gli altri, quindi curare significa usufruire anche delle tecnologie per aiutare il malato a capire il significato dell’esperienza che sta vivendo.
Sintesi delle piste di riflessione alla terza domanda:
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“Il Padre Generale nei suoi recenti documenti insiste sul fatto che i Religiosi devono essere guide morali, anticipatori e ricercatori”. Qual è la tua esperienza in merito? Cosa proponi per la realizzazione di questo programma?
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I Fatebenefratelli devono essere anticipatori nel dare una assistenza completa e qualificata ai malati con le nuove patologie in particolare alle persone anziane e ai malati di mente.
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Devono essere ricercatori come San Giovanni di Dio, attenti con indagini epidemiologiche, cercando in questo modo di dare proposte operative ai bisogni che si stanno affacciando al nostro orizzonte.
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Ciò che si auspica è che il religioso sia più presente “sul campo”, sia come presenza fisica, sia soprattutto come possibilità di incontro e di ascolto reciproco.
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Deve esserci maggiore presenza dei religiosi nel loro ruolo spirituale vicino al malato e devono avere più tempo per i collaboratori.
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È necessaria più professionalità, ma questa si deve integrare con le doti di spiritualità, umanità e carità sulla base della esperienza di San Giovanni di Dio.
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E’ necessario portare a conoscenza di tutti gli operatori e collaboratori laici la filosofia dell’Ordine.
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Il religioso deve essere il tecnico dell’Ospitatità, svolgendo all’interno dei reparti un’opera di coordinamento e di controllo di tutti gli operatori sanitari.
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Rivoluzionaria ci appare la richiesta di collaborazione concreta, di corresponsabilità, e possibilità di critica tra laici e religiosi. Proponiamo a tal fine incontri mensili a livello di reparto e/o a livello di struttura sanitaria che coinvolgano gli operatori di diverse categorie.
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Ogni comunità si sforzi di migliorare nel proprio interno le strutture in modo da coinvolgere il più possibile gli operatori sanitari laici, che intendono portare avanti, accogliere globalmente la filosofia dell’Ordine.
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Si sforzi, inoltre, a ricercare e potenziare le possibilità emergenti negli operatori laici.
-
Dobbiamo creare attorno ai religiosi la possibilità di essere guide morali, anticipatori, ricercatori, compiti che nella diversità delle vocazioni ci sentono corresponsabili.
È da approfondire la cultura dei religiosi e di noi tutti nel senso di “coltivare l’uomo” in modo da far emergere “energia necessaria per guarire e nel tempo stesso dare significato al dolore e, quindi, dare un senso alla vita”.
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